«Dove c’è un otre c’è una zampogna». Questo assunto, pur se improprio e applicabile al solo àmbito musicale, dà il senso di quella che è la caratteristica essenziale e distintiva degli strumenti appartenenti ad una precisa categoria: gli aerofoni a sacco. Vale a dire i fiati ad ancia con canne sonore alimentate tramite un otre che funge da riserva d’aria per il suonatore.
Gli aerofoni a sacco sono presenti in Europa e in alcune aree extra europee, in una varietà tanto ampia di tipi e modelli da rendere difficoltosa una loro catalogazione precisa e completa.
Origine degli aerofoni a sacco
Una delle questioni più dibattute è stata quella dell’origine storica degli aerofoni a sacco. Su tale argomento, Curt Sachs [Storia degli strumenti musicali, Milano 1985, pp. 159-160] scrive: «L’origine della zampogna è sconosciuta. Su un rilievo del tredicesimo secolo a.C. appartenente al palazzo ittita di Eyuk studiosi troppo frettolosi credettero d’aver scoperto la prima zampogna; in realtà il sacco è la vittima animale d’un sacrificio e le due “canne” sono solamente due nastri che pendono dalle due corde d’un liuto portato dinanzi l’offerta sacrificale. Pure un errore è stato quello di intendere come zampogna la parola aramaica sumponiah che ricorre nel Libro di Daniele […]. E ancora abbiamo dimostrato come uno strumento del genere non sia potuto essere presente in Israele e nella Grecia classica. La prima zampogna della quale si ha notizia sicura risale al I secolo d.C. […]. Lo strumento poteva essere stato importato da poco dall’Asia, e come le moderne zampogne asiatiche, era probabilmente munito d’un clarinetto o d’un clarinetto doppio».
Nell’indagine sulle ere antiche, lo storico dell’organologia ha quasi sempre a disposizione documenti frammentari e non soddisfacenti. Tale limite rende impossibile l’esatta ricostruzione della nascita, dello sviluppo e della conservazione degli strumenti musicali.
Essendo le cornamuse aerofoni ad ancia, l’analisi di queste fasi storiche trova avvio da un’epoca in cui ebbero ampia diffusione e fortuna alcuni oggetti sonanti costituiti da canne multiple munite, appunto, di ancia. Baines annota come, già cinque millenni fa, gli antichi flauti di canna, legno od osso, iniziassero ad essere sostituiti da una «serie di tubi ad ancia che da quel momento in poi in pratica monopolizzarono la musica per strumenti a fiato dell’antichità, culminando nell’aulos greco e nella tibia romana».
Tra tali strumenti, assicuravano particolari vantaggi musicali quelli a più canne. Il doppio aulos era formato da due tubi sonori utilizzati «quasi sempre in coppia: il suonatore reggeva una canna per ciascuna mano e suonava entrambe simultaneamente» [A. Baines Storia degli strumenti musicali, Milano 1983, pp. 235-236]. La varietà delle tecniche esecutive sarà apparsa sbalorditiva al musicista abituato a suonare su strumenti a fiato con canna singola.
Gli auloi, come detto, erano muniti di ancia. È difficile risalire all’epoca precisa in cui questo particolare dispositivo fu introdotto negli strumenti a fiato. André Schaeffner [Origine degli strumenti musicali, Palermo 1987, p. 301] considera l’ancia «semplice, battente, […] fra i processi sonori più antichi e più diffusi». Egli, infatti, si chiede: «Una volta giunti all’idea della canna, come non pensare di sollevarne dalla parete un frammento?».
È certo che aerofoni di canna, coevi dell’aulos e con ancia semplice, esistevano nei territori del bacino del Mediterraneo, così come anche oggi è possibile trovarne, ma le fonti iconografiche più attendibili fanno propendere per l’uso dell’ancia doppia in gran parte degli auloi greci ed etruschi e nelle tibiae latine, pur s’è indiscussa la presenza di tipi ad ancia semplice.
Si conoscono vari oboi antichi suonati in coppia. Curt Sachs [op. cit., p. 157] ne segnala alcuni: «Greci e Romani possedevano numerose specie di oboi doppi. Il più importante era l’oboe doppio frigio che aveva le due canne di lunghezza differente, con la più lunga ricurva verso il fondo e terminante con un largo padiglione simile a quello d’una tromba; i fori per le dita erano posti ad altezza diversa in ognuna delle due canne, le quali avevano […] piccolo diametro. Una denominazione greca per quest’oboe doppio era auloi élymoi. L’oboe doppio lidio, invece, che venne indicato dai Romani con la denominazione tibiae serranae (fenicie), aveva canne di eguale lunghezza e coi fori per le dita in identica posizione. Le canne dell’oboe doppio erano ricavate in diverse misure e in diversi tagli d’altezza sonora».
I Romani attuarono sulle tibiae una classificazione piuttosto netta, che distingueva gli strumenti in due gruppi principali: tibiae pares e tibiae impares, che corrispondono a canne di lunghezza uguale o diseguale, come nei casi degli oboi frigi e fenici poc’anzi ricordati nella descrizione di Sachs. Significativamente, ancora oggi, tra le zampogne italiane, ce n’è un tipo che è detto a paro (ciaramedda calabro-siciliana) poiché ha, come le antiche tibiae serranae, i chanter di medesime dimensioni.
Il principale problema esecutivo per i suonatori di auloi e tibiae era l’effettuazione della tecnica del fiato continuo, necessaria ad ottenere il suono ininterrotto. Ciò, sicuramente, indusse qualcuno a pensare ad una riserva d’aria da usare ogni qualvolta si doveva riprendere fiato: un otre da applicare allo strumento e che, collegato alle canne sonore, poteva alimentarle in modo continuo. Pronunciarsi con certezza su quando e dove ciò avvenne è difficile, pur se indicazioni importanti possono aiutarci in tal senso. Il fatto, ad esempio, che fino a tutta l’epoca preimperiale romana non si riesca a trovare prova inconfutabile dell’esistenza d’una zampogna, ci dà l’idea di come lo strumento dovesse essere sconosciuto (o noto solo marginalmente).Alcuni hanno creduto di individuare una suonatrice di zampogna nei versi del componimento noto come Copa Surisca (Ostessa Siriana), attribuito a Virgilio ma quasi certamente d’altro autore, seppure coevo del poeta mantovano. L’ostessa citata nei versi era capace di ballare e far vibrare delle stridule canne sotto un gomito: «Copa Surisca caput graeca redimita mitella / crispum sub crotalo docta movere latus, / ebria formosa saltat lasciva taverna, / ad cubitum raucos excutiens calamos». Tale descrizione, però, è troppo indeterminata; in nessun modo autorizza a identificare l’uso di una zampogna.
Le prime notizie sull’uso certo d’uno strumento musicale a sacco risalgono al periodo della Roma Imperiale. In uno dei suoi Epigrammi, Marziale (40 ca, 104 d.C.), utilizzando un vocabolo composto di derivazione greca, menziona l’ascaules Cano: «…credis hoc Prisce? / voce ut loquatur psittacus coturnicis / et concupiscat esse Canus ascaules?» [Epigr. 3, 10]. Il sostantivo ascaules indica sicuramente uno zampognaro. In greco, ascos sta per sacco e aulos per piffero ad ancia; pertanto, l’unione di queste due parole equivale ad altri vocaboli composti in uso negli idiomi di varie culture e che identificano gli aerofoni a sacco (inglese bagpipe, tedesco sackpfife, belga pijpzak, svedese säckpipa).
Il biografo latino Svetonio (70 ca, 140 ca), nel De vita Cesarum [Nero, 54], scrive che Nerone «sub exitu quidem vitae palam voverat, si sibi incolumis status permansisset, proditurum se partae victoriae ludis etiam hydraulam et choraulam et utricularium». Quindi, Nerone (37-68 d.C.) era in grado di suonare tre strumenti, sapendo fare l’utricularius (zampognaro), cioè il suonatore di utriculus (zampogna). Anche Dione di Prusa (40 ca, dopo il 112 [115?]), in un passo riferito allo stesso Nerone [Orat. LXXI, 9], afferma come l’imperatore sapesse suonare la tibia e contemporaneamente comprimere col braccio un sacco.
Oltre queste citazioni su Cano e Nerone, non vi sono, allo stato attuale delle conoscenze, incontrovertibili attestazioni precedenti; ancorché si conosca una leggenda che narra come Giulio Cesare, nel 55 a.C., impegnato nella conquista dell’isola britannica, sia riuscito a sconfiggere i nemici grazie al suono delle zampogne usate da alcuni suoi soldati. Ma si tratta solo d’un racconto mitico, senza nessuna concreta attendibilità storica. Anche se c’è da segnalare come siano state interpretate quali zampogne da guerra (war pipes) gli strumenti a fiato usati dall’esercito romano-bizantino nelle battaglie contro i Goti (VI secolo d.C.) descritte nella Storia delle guerre di Giustiniano, opera dello storico Procopio di Cesarea, secondo il quale il segnale dell’attacco militare era dato col suono di strumenti fatti di cuoio e legni sottili [cfr. A. Baines, Bagpipes, Oxford 1979, p. 67]. La descrizione di Procopio, però, non convince; è troppo vaga ed eccepibile.
Nel settore delle attestazioni letterarie, dovrà passare un periodo lungo prima di rintracciare nuovamente la reale descrizione di una zampogna. Nell’Epistola ai Dardani (IX secolo), si legge: «Antiquis temporibus fuit chorus quoque simplex, pellis cum duabus cicutis aereis, et per primam inspiratur, secundam vocem emittit». Secondo tale descrizione, il chorus era un aerofono fornito di pelle, con un tubo per l’alimentazione e una canna per suonare; quindi, una cornamusa “elementare” realizzata con fusti di cicuta, una pianta la cui utilizzazione per costruire strumenti musicali era già stata segnalata nei testi di epoca classica.
Per comprendere le caratteristiche delle antiche cornamuse romane e di quelle in uso nei primi secoli del medioevo, sarebbe fondamentale poter osservare le loro raffigurazioni. Purtroppo, nel campo iconografico, è pressoché totale la carenza documentaria relativa a tali periodi storici. Per quanto riguarda l’utriculus, né l’arte figurativa né l’archeologia hanno conservato immagini originali; benché di tale strumento latino ci sia pervenuta l’effigie riprodotta postuma, in libri stampati dopo molti secoli dall’effettiva epoca in cui esso era in uso. Nel De tribus generibus instrumentorum musicae [Roma 1742] di Francesco Bianchini sono incluse le raffigurazioni di due zampogne romane (o presunte tali). Un altro autore, Francesco de’ Ficoroni, ne Le maschere sceniche e le figure comiche d’antichi romani [Roma 1736, pp. 214-218, tav. LXXXIII], descrive e fa stampare l’illustrazione d’una corniola dell’antica Roma raffigurante un saltatore (ballerino) nudo, con in mano un aerofono a sacco (o qualcosa di molto simile).
Nella storia della zampogna, l’alto medioevo costituisce una sorta di “buco”; un vuoto di notizie che sembra impossibile riuscire a colmare.
La raffigurazione d’una zampogna italiana medievale è riprodotta nel Salterio polironiano, una miniatura d’inizio XII secolo; ma anche qui siamo in un terreno quanto mai controverso, soprattutto per effetto dell’opera del miniaturista, non si sa quanto fedele e attendibile rispetto agli strumenti realmente in uso a quel tempo.
Dalla seconda metà del Duecento e per tutto il secolo successivo, la zampogna diventa uno strumento musicale considerevolmente presente in Europa, almeno a giudicare dal cospicuo numero di documenti iconografici che mostrano cornamuse. Secondo Baines [op. cit., p. 68], ciò induce a ritenere che, nel periodo appena precedente il XIII secolo, l’idea dell’otre per alimentare gli strumenti ad ancia si sia rapidamente diffusa ed abbia dato vita, col tempo, ad una sorprendente varietà di esemplari.
Le pive dell’Italia settentrionale
Il nome piva è genericamente assegnato agli aerofoni a sacco diffusi nell’Italia settentrionale, la cui conformazione è rapportabile a quella di analoghi strumenti presenti in altre nazioni europee. Queste le caratteristiche strutturali e organologiche delle pive italiane (fa eccezione la piva istriana, che ha peculiarità differenti);
- polimpianto (le canne sonore sono inserite in più aperture dell’otre);
- chanter singolo (una sola canna melodica usata con entrambe le mani);
- uso misto di ance (ancia doppia nel chanter, semplice nei bordoni);
- alimentazione a bocca.
Tra i vari aerofoni a sacco dell’Italia settentrionale, si riscontrano, però, anche differenziazioni. Il bordone, ad esempio, può essere singolo o doppio. L’uso musicale, inoltre, può essere prevalentemente di accompagnamento (come nel caso della müsa) o solistico (es. baghèt).
Il baghèt e la baga
Il baghèt è la piva bergamasca, il cui territorio elettivo è quello della Val Gandino e di altre valli vicine. Il nome dello strumento fa esplicito riferimento all’otre (baghèt – diminutivo di baga – è voce dialettale che significa piccola borsa, piccolo otre). Al limite del totale abbandono, questo tipo di piva è stato recuperato e nell’ultimo decennio ha goduto d’un significativo revival.
Il baghèt ha la seguente struttura:
- chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori e 1 posteriore;
- due bordoni cilindrici, realizzati in più sezioni assemblate a incastro.
Il baghèt ha una “sorella” veneta: la baga (borsa), che dopo aver patito l’estinzione, è stata di recente recuperata attraverso opere di ricostruzione e riutilizzo.
La piva istriana
La presenza della piva nelle comunità italiane dell’Istria è documentata per alcune località. Lo strumento ha doppio chanter con ancia semplice e nessun bordone. Un modello di piva istriana è strettamente imparentato col mih croato e appare, pertanto, come una versione di tale strumento che ha i chanter monoxili.
Un secondo modello di piva, invece, è di tipo diverso, ha i chanter separati; è una sorta di surle (doppio clarinetto innestato in un blocco di legno) con sacco.
La müsa delle quattro province
L’area elettiva della müsa è quella detta “delle quattro province” (Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova).
Queste le sue caratteristiche:
- chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori (senza foro per il pollice);
- un bordone cilindrico, con dei forellini che possono essere chiusi o lasciati aperti per variare la nota pedale.
Si tratta d’uno strumento d’accompagnamento, utilizzato in coppia col piffero, un oboe popolare che nella tradizione contemporanea viene più spesso suonato insieme alla fisarmonica. La müsa era uscita dall’uso, ma grazie al ritrovamento di vecchi esemplari (pezzi di strumenti o strumenti interi) è stato possibile un suo recupero.
La piva emiliana
Nei dizionari ottocenteschi dei dialetti emiliani e romagnoli si leggono definizioni relative ad uno strumento musicale denominato genericamente piva oppure, in modo più completo, piva da sacch (Romagna) e piva dal carner (Emilia), laddove i sostantivi sacch (sacco) e carner (carniere, bisaccia del cacciatore) intendono specificare la presenza d’un otre.
La piva emiliana è di tipo solista. Così come le altre cornamuse del nord Italia, ha attraversato una crisi che l’ha quasi condotta all’estinzione. Gli ultimi strumenti sopravvissuti hanno evidenziato questa struttura:
- chanter con 7 fori digitabili (senza foro posteriore);
- due bordoni;
- 4 impianti per le canne: 3 per il chanter e i due bordoni; 1 per la canna d’alimentazione.
Le zampogne dell’Italia meridionale
Col termine zampogna si indica l’aerofono a sacco dell’Italia meridionale (dal Lazio alla Sicilia). La zampogna italiana ha delle caratteristiche uniche, che la rendono facilmente identificabile all’interno del vasto campionario degli aerofoni a sacco conosciuti. Due, in particolare, gli aspetti che la distinguono (fa eccezione la zampogna pugliese):
- il mono impianto. Tutte le canne sonore sono inserite in un medesimo blocco di legno;
- il doppio chanter. Due canne per la modulazione del suono, staccate e leggermente divergenti.
Altra costante è quella dell’alimentazione “a bocca”.
Vi sono, però, anche caratteristiche che variano secondo i tipi e i modelli di zampogne. Una distinzione può farsi dividendo gli strumenti in due categorie principali:
- zampogne con chiave;
- zampogne senza chiave.
Altra distinzione concerne la dimensione dei chanter, che possono essere di:
- lunghezza uguale (tibiae pares);
- lunghezza disuguale (tibiae impares).
Differenziazioni si riscontrano pure nell’uso delle ance. Ci sono zampogne che montano solo ance doppie, altre che usano ance miste ed altre ancora che usano solo ance semplici. Anche il numero dei bordoni può variare. Si va dalle zampogne che non ne usano, alle zampogne che ne montano anche quattro.
Le ciaramelle
Col nome le ciaramelle si identifica una zampogna la cui area elettiva è l’Alta Sabina. Tale strumento rientra nella categoria delle zampogne zoppe, e mostra aspetti distintivi che ne fanno un tipo a sé stante. La più importante sua caratteristica musicale è che si tratta d’uno strumento che emette suono solo dai chanter, avendo la canna di bordone inattiva.
La tradizione delle ciaramelle è in forte crisi; sull’orlo del totale abbandono.
La zampogna di Panni
Tra le zampogne meridionali, è anomala quella pugliese di Panni (Fg) poiché ha caratteristiche completamente diverse dalle altre.
Tale zampogna, infatti, ha un solo chanter e un unico bordone, impiantati separatamente.
Entrambe le canne sonore sono fabbricate con piante di arundo donax. Il chanter è estremamente corto e presenta tre soli fori digitabili anteriori, ed è completato da una piccola campana posticcia. Il bordone è costituito da un robusto fusto di canna cui si applica, sulla parte superiore, una zucca svuotata ed essiccata.
Lo zampognaro suona il chanter con una mano e con l’altra regge il bordone, tenendolo in posizione verticale. L’ancia è semplice sia sul chanter che sul bordone.
L’otre è di pelle d’agnello. La sacca è premuta sotto il braccio della mano con cui si regge il bordone.
La surdulina
Surdulina è il nome col quale viene chiamato un tipo di zampogna presente in un’area geografica che comprende l’estrema zona meridionale della Lucania e località della Calabria settentrionale. Una caratteristica della surdulina è la sua ridotta dimensione.
Ecco la struttura dello strumento:
- chanter cilindrici di eguale lunghezza. Quattro fori digitabili anteriori per ogni chanter. Lo sbocco terminale del chanter sinistro è chiuso;
- i bordoni sono due o, raramente, tre (straordinariamente quattro). Il bordone maggiore è sempre la canna più lunga dello strumento;
- ance semplici sia sui chanter che sui bordoni.
La zampogna a palmi
La zampogna a palmi è uno strumento costruito in alcune località della Campania, della Lucania e della Calabria. È chiamata “a palmi” perché realizzata in vari modelli le cui grandezze sono espresse, appunto, in palmi (antica unità di misura corrispondente a circa 26 cm).
I modelli più in uso sono la 3 palmi e la 3 palmi e mezzo. Ma sono utilizzate anche altre misure.
La zampogna a palmi è fornita di chiave ad uno dei chanter, un congegno metallico che serve a chiudere l’ultimo foro per la nota grave, molto distanziato dagli altri. Tutto il meccanismo viene nascosto dal coprichiave, un involucro di legno appositamente bucherellato.
Nell’aspetto, questa zampogna è simile all’analogo tipo molisano. La differenza più evidente è che la zampogna a palmi presenta due o tre bordoni attivi, mentre quella molisana, nei modelli oggi più in uso, ha un solo bordone sonoro (eccezionalmente due, in specifici modelli).
Come quasi tutte quelle “con chiave”, la zampogna a palmi è tradizionalmente usata per accompagnare la ciaramella.
La zampogna a paro
Si definisce a paro il tipo di zampogna italiana diffuso nella Calabria meridionale e nella Sicilia orientale. Il nome deriva dal fatto che lo strumento ha i due chanter di “pari” misura. Queste le sue caratteristiche:
- due chanter con 4 fori digitabili anteriori e 1 posteriore su una canna, 4 anteriori sull’altra;
- due, tre o, raramente, quattro bordoni sonori;
- generalmente, ance tutte semplici (con qualche eccezione).
La zampogna a paro è strumento solista. Il suo nome dialettale è ciaramedda.
Altre zampogne
Oltre quelli descritti, nell’Italia meridionale esistono altri tipi e sotto-tipi di zampogne, molto meno diffusi e colpiti da grave crisi che li sta portando (o li ha portati, come nel caso della scupina molisana) all’estinzione.
La zampogna zoppa.
È detta zoppa (in dialetto cioppa) la zampogna senza chiave costruita nel Lazio e nel Molise. La zoppa presenta il chanter maggiore che – proprio per l’assenza di chiave – è più corto rispetto a quello che su altri strumenti è provvisto di tale congegno metallico. Nel Molise, l’uso della zampogna zoppa è quasi del tutto estinto. Per il Lazio occorre distinguere due zone. Nell’area meridionale, la cioppa mostra le stesse caratteristiche organologiche di quella molisana (e vive pressoché la stessa crisi). Nell’area dell’alta Valle dell’Aniene, invece, la zampogna zoppa (strumento ormai non più praticato) mostra aspetti differenti, come l’uso di ance semplici.
Le grandi zampogne.
Vi sono nell’Italia meridionale delle zampogne con chiave che si distinguono per le considerevoli dimensioni e che sono comunemente chiamate “grandi zampogne”.
Oggi questi strumenti sono piuttosto rari, ma un tempo erano probabilmente più utilizzati. Si conoscono antichi documenti fotografici che mostrano zampogne le cui altezze non raramente sono pari o superiori a quelle degli zampognari che le suonano.
Tra le grandi zampogne, una menzione per quella ancora oggi in uso a Monreale (Pa). Si tratta d’uno strumento del tipo con chiave (a volte con doppia chiave) e senza coprichiave. È una zampogna solista, che suona in minore. Viene usata anche in accompagnamento al canto per l’esecuzione delle novene.
La zampogna nel Molise
Nell’attuale tradizione musicale del Molise, la zampogna è strumento legato principalmente alla cultura di tre paesi: Scapoli, Castelnuovo al Volturno e San Polo Matese, ma anche altre località sono (o sono state) interessate all’uso degli aerofoni a sacco.
Castelnuovo e San Polo sono comunità nelle quali rimane attivo un buon numero di zampognari; Scapoli, invece, svolge un ruolo diverso, perché, oltre che essere luogo con cospicua presenza di suonatori, è il centro di produzione degli strumenti.
A Scapoli si costruiscono due tipi di zampogne: quella con chiave e quella zoppa (di quest’ultima, si è già detto).
La zampogna con chiave
La zampogna molisana con chiave, come tutte quelle dell’Italia meridionale, ha sempre il doppio chanter, il mono impianto e l’alimentazione a bocca; ma mostra anche proprie peculiarità. Queste le caratteristiche dello strumento:
- i chanter di lunghezza diseguale, divergenti e conici. Il chanter corto (destro) è fornito di 5 fori digitabili (4 anteriori, 1 posteriore), mentre il chanter lungo (sinistro) ne ha 3 più il foro della chiave;
- due bordoni, di cui – nei modelli oggi più usati – uno solo (il maggiore) produce suono, mentre il secondo (il minore) è muto. Vi sono, però, esemplari con doppio bordone sonoro, ma si tratta di strumenti che, benché ancora costruiti, nel Molise nessuno usa più;
- ance doppie su tutte le canne sonanti;
- campane che si avvitano all’estremità del fuso dei chanter e che possono essere di due specie: campagnola (con padiglione ampiamente svasato) e vezzanese (con padiglione meno ampio).
I legni più comuni usati per la costruzione delle zampogne molisane sono l’ulivo e il ciliegio. Vengono, però, lavorate anche altre piante ritenute adatte. Molti strumenti sono fabbricati con l’uso misto di legni: (ciliegio per le campane, ulivo per i fusi dei chanter e per i bordoni).
Per gli otri, è invalsa la consuetudine di utilizzare le camere d’aria di automobile, ricoperte di finto vello. Però, occasionalmente e su richiesta, si utilizzano anche pelli d’animale (capra o pecora).
Le zampogne molisane con chiave si costruiscono in più modelli, contraddistinti da prestabiliti numeri convenzionali. La zampogna modello 25 è oggi quella preferita dai suonatori, ma anche la 28 gode d’una buona diffusione. Alle grandezze, e quindi ai numeri, corrispondono le intonazioni degli strumenti.
La molisana con chiave è zampogna d’accompagnamento, suonata in coppia con la ciaramella, che effettua le parti soliste dei brani musicali.
La ciaramella molisana (biffera) presenta 9 fori digitabili (8 anteriori, 1 posteriore) e, così come per la zampogna, viene costruita in vari modelli, diversi per grandezze ed intonazioni, adatti a suonare col corrispondente modello di zampogna.
La scupina
Nel Molise, fino a pochi decenni fa, è stato in uso un particolare tipo di zampogna caratterizzato dall’avere i due chanter e l’unico bordone costruiti con la canna palustre (arundo). Lo strumento, la cui denominazione dialettale era scupina, aveva queste caratteristiche:
- due chanter, con 4 fori digitabili anteriori e 1 posteriore per una canna, 4 fori anteriori per l’altra;
- un bordone, formato da due parti assemblate ad incastro;
- ance tutte semplici.
La scupina molisana – il cui uso è ormai estinto – era destinata al “sostegno” della voce in canti eseguiti in occasioni festive calendariali (capodanno, riti di primavera) e durante le serenate.
Mauro Gioielli